La pala di Mimì

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Studi Cassinati, anno 2016, n. 3
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di Giovanni Petrucci*

Il 5 settembre 2016 se ne è andato veramente, dopo una vita di lavoro da ragazzo di otto anni all’età matura trascorsa tra Sant’Elia, Roma, Svizzera e di nuovo a Sant’Elia con papà.
Nel corso delle tristi vicende della guerra tutta la famiglia si era rifugiata nella prima Galleria Boimond, il traforo sotto Valvori, di circa due metri nella parte più alta della volta a tutto sesto e di molto meno in larghezza. Vi si poteva camminare solo curvati al centro, ma non si respirava bene e molti erano dovuti andar via, come Romoletto Genovese, con i suoi, che soffriva di asma bronchiale.
Felicia aveva insistito con Antonio, suo marito, Appicciarieglio:
«Ho bisogno di stare calma e sicura, vicino a tante amiche, in attesa dell’evento! Vedi che non sto bene e da un momento all’altro posso…Sono come la Madonna a Betlemme».
Antonio si rese conto che la moglie aveva ragione e moltiplicò le sue energie per spargere la paglia nello spazio che i vicini le avevano assegnato; ne occorreva tanta, perché a terra si raccoglievano i trasudamenti della collina.
A sera, approfittando delle soste dei battitori dal cuore d’oro delle Serre di Acquafondata, era sceso per due volte alle Telara, a prendere qualche coperta e tutto ciò che poteva servire. Anzi fu così premuroso da recarsi qualche giorno dopo di buon mattino a Valleluce a cercare la levatrice, la madre di Tonino Angelosanto. La signora Giuseppina Reina, che, in una decina di anni, dal 1930 al 1943, aveva fatto nascere tutti i bambini di Sant’Elia, si dichiarò disposta a scendere sotto Valvori l’indomani, perché intendeva visitare la puerpera e predisporre ogni cosa. Sapeva bene che nascere in un ricovero di fortuna, in una capanna e magari sulla paglia, nella promiscuità dei rifugiati, nel freddo gelido di quell’inverno non era un affare facile!
La mattina del 29 gennaio fu puntuale e disse subito:
«Non mi muovo, perché può nascere da un momento all’altro. Prepara l’acqua calda e dei panni puliti …».
Per fortuna erano le prime ore del mattino e Antonio poté accendere il fuoco e chiedere aiuto alle vicine. Queste, consapevoli delle necessità, si riunirono tutte e festose fecero a gara nell’apprestare l’occorrente. Mamma Mafalda, nonna di una infinità di bambini ed esperta aiutante, fu preziosa in quel frangente.
La vita scoppiò all’improvviso come le granate che arrivavano da lontano! Erano le ore 11 del 29 gennaio 1944.
«È nato! È nato!» gridavano tutte in coro le numerose mamme di ambedue le Gallerie, a voce spiegata, e non c’è stato bisogno di Don Ferdinando! È uscito tutto liscio come l’olio.
Intanto il sole si era affacciato e aveva mandato un raggio ad infilarsi ed illuminare la gola sperduta del Rapido mentre da Acquafondata si erano svegliati tutti gli artiglieri delle batterie e avevano iniziato la giornata di festa. Rispondevano loro quelli di Cifalco e San Martino. I grappoli scoppiavano di qua e di là. Donna Giuseppina dovette attendere una schiarita verso mezzogiorno per riprendere la via del ritorno, accompagnata dal pettoruto Tonino di appena dieci anni, coraggioso balilla.
Antonio stava palpando il portafogli vuoto e biascicava qualche parola e lei lo tolse da ogni impaccio: «Domani, se me le daranno, ti farò avere due “dita di salcicce fresche” e scappò via …».
Mimì cresceva sano; solo lo scoppio di una granata piuttosto lontano, con una scheggia piccola piccola aveva strappato lo scialle in cui era avvolto. Nessuno vi prestò attenzione, ma il piccolo alle volte frignava per lungo tempo, ma poi si assopiva.
«Sono piccoli, devono poppare e piangere!» dicevano le donne, vicine di galleria.
Passò qualche settimana e dopo il bombardamento di Montecassino arrivò l’ordine di sfollare.
Prima i soldati francesi avvertirono con buone maniere, cercavano di far capire che non si poteva restare esposti al fuoco dei Tedeschi occupanti i monti a corona al di sopra. Poi divennero più duri e bussavano ai ricoveri con i fucili o con calci; entravano minacciosi. Non ammettevano scuse di malattie, di vecchiaia, dei piccoli ed altro.
Le famiglie si riunivano a palazzo Lanni e a sera, quando era buio, si formava l’autocolonna in via delle Sode, per non essere avvistata dagli artiglieri dei nemici. Attraversavano il giardino Lanni e il fosso di scolo, tutto un pantano, e risalivano sulla strada per prendere posto sui camion, mentre il comandante si affrettava e di corsa si accertava che essi erano completamente carichi e gli autisti pronti alla partenza simultanea.
Il 19 febbraio faceva freddo, un freddo di neve accumulatasi per giorni ai margini della strada, un freddo che raggelava e illividiva le mani e incrostava il naso; si aggiungevano folate di vento fischiante impetuoso. Era una notte nera di fame e di freddo. Ognuno, però, affrontava le avversità con uno spiraglio di speranza nella salvezza e ritrovava le forze di vecchi tempi.
Felicia non rifiutò l’aiuto del marito e fu spinta sull’alto cassone del dodge tenendosi stretto il suo Mimì, cercando di proteggerlo e di combattere i pericoli del gelo. Si mise a sedere nella fila di destra, al centro, proprio per stare più protetta e meno esposta.
L’autocolonna era lunga lunga, dai “due cipressi” scendeva giù alla casa di Michelangelo di Rienza.
Mimì1 imparava bene il mestiere da mio padre. Era un apprendista modello, sempre sorridente, con un fischiettare che trasmetteva allegrezza durante il lavoro,  svelto ed a modo. La madre glielo ripeteva sempre:
«Iuccio vuole il buon comportamento; non dimenticare mai di salutarlo quando arrivi e quanto stacchi!».
Un giorno si assentò e mancò per una settimana. Nella bottega si avvertiva la sua assenza.
Andai a trovarlo. Stava bene, anche se la febbre gli aveva lasciato sul volto i segni. Restai colpito a vedere a capo del letto una paletta americana, quelle di cui erano fornite le jeep.
Il legno era lucidato, il semiovale appuntito di acciaio verniciato di colore verde senza scalfitture. Era bella ma non era un Cristo.
Restai alquanto interdetto. E mamma Felicia se ne accorse.

Ero rimasta seduta, ferma e per poco tempo scambiavo qualche parola solo con Antonio. Mimì, cullato dal rumore e dai continui sobbalzi del camion, che a volte divenivano paurosi, dormiva tranquillamente; questo mi dava una certa calma e penso che per un buon tratto di strada fui presa anche io da un sopore improvviso. La notte era buia e buio era l’interno del nostro cassone coperto da un telone grigio, dove eravamo stipati.
Nessuno osava accennare parola!
Eravamo come trasportati da una forza misteriosa lontano lontano, con una lucignolo di speranza di salvezza. Certo i fischi spaventosi delle granate non si sentivano più; anche se avvertivano che gli scoppi sarebbero avvenuti lontano, in altro luogo. Ma ti trapanavano la mente da parte a parte!
Dopo alcune ore, spinta dell’abitudine, ebbi il desiderio di dare la poppata al piccolo. Il mio petto era vuoto, lo sentivo floscio sotto le dita, come la stoffa del mio cappotto.
«Ma se non mangio come posso fare latte?».
Mimì si attaccò lesto e lesto finì.
Le tavole dure accrescevano il fastidio degli scossoni che ci facevano sollevare di parecchio.
Antonio era di una finezza squisita:
«Vedrai che ci daranno il pane bianco! Le scatolette le hai assaggiate, sono buone: è una pasto appetitoso, con quel rosso che non è di pomodoro. Mimì crescerà sano!».
Il discorso andò avanti per non molto tempo; ambedue erano stanchi e si assopirono.
I camion continuarono a procedere sia pur lentamente; forse soffrivano anche loro i rigori del mese.
Finalmente il cielo cominciò a schiarirsi ed essi si fermarono tutti allineati su un mare di neve. Forse si era a Casalcassinese. Cominciò a far giorno, ma non ci si vedeva. Un cielo basso che lo toccavi con le mani e pesante che te lo sentivi gravare sulla testa. I soldati si scostarono alquanto dagli automezzi, fecero cadere macchie di benzina e l’accesero, dando così una sorta di tepore alle mani intorpidite.
Durante quella sosta improvvisa, mi accorsi che Mimì non respirava più ed era divenuto cianotico, freddo ed irrigidito. Inghiottii l’amaro e restai immobile, pietrificata dal dolore; e mi stringevo più fortemente il piccolo al seno.
Antonio notò la stranezza e subito ne chiese la causa.
Allora saltò giù dal pianale e scosse gli autisti che tendevano le mani sulle fiamme tra la neve:
«Un dottore … C’è bisogno di un dottore …».
I due soldati salirono, videro e scesero sconsolati; presero da una jeep una pala e la consegnarono facendo capire con gesti più che con parole, che non potevano portarlo con i vivi. Ci fu un breve consulto e decisero di seppellirlo ad un lato della strada.
Passò qualche tempo fra singhiozzi strozzati e preghiere, mentre Alfredo, suo fratello, si fece porgere l’involto di scialli che nascondevano il piccolo. Non perse tempo e lo avvicinò alla fonte di calore; gli fece un lieve massaggio sul petto, cercando di trasmettergli il caldo, tutto il caldo dal fuoco della benzina. Scaldava la mano alla fiamma e immediatamente la poneva sul petto del bambino. I soldati capirono e lo alimentarono usando l’accortezza del caso. A volte avvicinava tutto il fagotto sperando che potesse rinvenire.
Di là dal margine della strada Antonio cercava di scavare. Ma la terra, sotto oltre un palmo di neve, era divenuta dura e i colpi dati con la piccola pala trovavano resistenza. Né riusciva il piede a spingere giù la punta, facendo forza sull’aletta, come sul vangile della vanga.
«Non posso metterlo così, sotto la neve. Quando questa si scioglierà, fra qualche mese, il mio Mimì resterà scoperto».
E tirava giù palate con più forza, impiegando tutta l’energia rimastagli. Era riuscito solo a creare una traccia superficiale. E si sentiva avvilito perché non era mestiere suo e tra non molto l’autocolonna doveva riprendere la strada.
Improvvisamente si sentì chiamare:
«Vieni qui, Mimì sta bene!».
A Castrovillari riprese il colore naturale dei bambini; solo frignava in certi periodi della giornata. Se non che una mattina, nel lavarlo mi accorsi di una pustoletta sul piedino sinistro. Il medico condotto gli estrasse una piccola scheggia e tutto passò.


NOTE

* Dal manoscritto L’inverno 1943-44 a Sant’Elia. Testimonianze di Mimì Cocorocchio e dei genitori Felicia Caporicci e Antonio.

1 Mimì, commenta: «Mia madre non mi parlava volentieri di quei tristi giorni, dello sfollamento, della mia nascita, della fossa al margine della strada. Furono momenti tremendi per la famiglia. Quando i Francesi, dopo il bombardamento di Montecassino, diedero ordine di sfollare, i miei si riunirono ai parenti già scesi a Sant’Elia rifugiati al piano terra della casa del cav. Carlo Pirolli; ma un bel giorno, il 16 febbraio1944, una cannonata tedesca da monte Cifalco centrò proprio il punto dove si erano nascosti, credendo di essere al sicuro: morirono Anita Rovasente e il nipote Manfredo Cocorocchio; Carmine Cocorocchio con la moglie Gaetana Quagliere; la figlia Adelina restò gravemente ferita con i postumi ancora vivi e senza un aiuto dello Stato dal 1944».

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