Strage di civili nel 1944 al vallone dell’Inferno a Sant’Elia. Si salvarono in quattro.


Print Friendly, PDF & Email

.

«Studi Cassinati», anno 2018, n. 3
> Scarica l’intero numero di «Studi Cassinati» in pdf
> Scarica l’articolo in pdf

.

di Giovanni Petrucci

Ci corre l’obbligo di tornare sulla rievocazione del gravissimo disastro accaduto durante la notte dello sfollamento del 1944: ricerca pubblicata su «Studi Cassinati», a. VI, n. 2, aprile-giugno 2006, pp. 109-113.

.

Foto 1: La carreggiata della strada S. Elia-Vallerotonda.

Foto 1: La carreggiata della strada S. Elia-Vallerotonda.

Agli inizi del mese di febbraio 1944 i francesi, stanziati in vari punti del territorio di S. Elia Fiumerapido, avevano ben compreso che la battaglia si sarebbe protratta lungamente; per questo motivo cominciarono a far capire a tutti che avrebbero dovuto lasciare le loro case e la loro terra.

L’invito si trasformò in ordine perentorio dopo la distruzione dell’abbazia del 15 febbraio ed i santeliani dovettero eseguirlo sotto la minaccia delle armi.

Dai vari rifugi erano costretti a riunirsi in un centro di smistamento ubicato nel Palazzo Lanni. A volte arrivavano pure abitanti di altri paesi, desiderosi anch’essi di mettersi in salvo nell’Italia meridionale. I residenti del territorio di Portella si radunavano nel «Vallone» e i camion carichi si accodavano all’autocolonna pronta in Via Vallerotonda, dalla salita di Enrico Risi fino alla curva della Tascitara.

Quando scendevano le tenebre, erano costretti a salire su dodge americani a dieci ruote, dai cassoni molto alti, guidati da giovani tunisini o algerini.

Formatosi un lungo treno, a notte fonda, avveniva la partenza: i civili spaventati dai cannoneggiamenti e dai bombardamenti, avviliti, confusi e a volte piangenti fuggivano, non avendo nemmeno la calma necessaria per rivedere le abitazioni e salutare eventualmente qualche parente o amico.

Partivano stravolti dalla fame, dalla pediculosi, dalle malattie, dal dolore per avere già perso qualche congiunto e senza conoscere la destinazione cui erano diretti; venivano spinti con brutalità a salire sui camion privi di scale idonee, sui quali le donne ed i vecchi potevano issarsi con fatica, perché i pianali erano molto alti. Alla brutalità dei loro modi i salvatori aggiungevano lo scherno tagliente con parole come rasoiate: «Italiani mangiamaccheronì, gridate adesso viva Mussolinì!».

I tedeschi, lungo la strada per Vallerotonda, nel ritirarsi, avevano provveduto a distruggere il muro di contenimento della strada e, proprio sul «Vallone dell’Inferno», di fronte a Portella, avevano fatto brillare le mine sotto un ponticello, o meglio una sorta di canaletto, costruito trasversalmente alla strada, nel quale defluivano i rigagnoli che si raccoglievano ai piedi della collina durante la pioggia e si scaricavano nel precipizio opposto.

Altri riferivano che proprio in quei giorni la località in questione era stata oggetto di ininterrotto cannoneggiamento proveniente da monte Cifalco, che aveva causato una grande frana. Fatto sta che proprio dopo un’ampia curva, chiamata la «Loggia di Portella», la strada si avvallava notevolmente, con una grande pendenza verso l’esterno. In questo modo era stata danneggiata e resa difficile, se non impossibile, per il transito.

Foto 2: «Colpi di piccone nella Valle dell’Inferno» (Lassale), disegno.

Foto 2: «Colpi di piccone nella Valle dell’Inferno» (Lassale), disegno.

La notte del 17 febbraio del 19441 era particolarmente buia; l’autocolonna procedeva a fari spenti per evitare l’avvistamento da parte dei tedeschi delle postazioni di monte Cairo; al primo camion faceva da battistrada Antonio Tomolillo2 con un fazzoletto bianco nella mano destra per indicare il limite del precipizio; questi si era fatto conoscere e si era reso disponibile a dare aiuto ai francesi; oltre tutto conosceva bene la lingua, essendo stato emigrante in Francia per molti anni. Nei pressi del punto indicato, il secondo camion, rimasto alquanto distanziato e perduto il contatto con quello che lo precedeva, si accostò di molto alla destra e rovinò nello strapiombo a circa cento metri o più in fondo al vallone3. Questo reale andamento delle cose spiega perché alcuni parlavano e continuano a parlare ancora oggi di due camion precipitati4; ma, secondo le testimonianze e le nostre ricerche, il primo camion si era ormai allontanato ed era fuori pericolo5.

Nel silenzio della notte si levarono urla di dolore. Gli occupanti dei camion seguenti si resero conto dell’immane tragedia e restarono impalati, impietriti, in quanto avevano intuito che cosa fosse accaduto; altri, più animosi, accorsero, scesero nel burrone facendo un lungo giro, accesero fasci di fiori di ampelodesma, gli strugli di stramma, alla ricerca delle persone precipitate nel vuoto.

Perirono molti occupanti del camion e solo di alcuni si conoscono i nomi:

1) Filomena Angelosanto, 2) Angelo Pomella, 3) Maria Palma Savelli di 29 anni da Terelle, 4) Clemente Verrecchia di 32 anni, 5) Felice Verrecchia di 40 anni, 6) Fernando Verrecchia di Felice6, 7) Carlo Viscogliosi.

Moltissimi i feriti che furono trasportati negli ospedali di Venafro e di Maddaloni. Per un miracoloso evento si salvarono tre bambini e una donna: Pasquale Marra, i fratellini Renato e Clara Viscogliosi con la madre Rosaria D’Agostino, mentre perì, come già riportato, il capofamiglia Carlo Viscogliosi detto il «canticchio», oriundo di Alvito, trasferitosi a S. Elia con il matrimonio e residente in contrada Madonna del Carmine, lungo la strada di Portella7.

Il piccolo Renato Viscogliosi era nato il 3 agosto 1942, aveva oltre un anno, e, come si usava dalle nostre parti, era stretto, lungo le braccine fino ai piedi, dalla tipica lunga fascia di lino, e con una seconda per proteggerlo dal freddo intenso della sera; due cuffie coprivano la testa; inoltre era avvolto in scialli vaporosi di lana. Solo il nasino e la bocca erano scoperti. Al primo capovolgimento del cassone volò insieme con chi lo stringeva al petto su un cespuglio di ampelodesma8: ambedue, formanti un solo corpo, saltarono con un altro tonfo su un secondo più fitto e qui rimasero ancorati a una ventina di metri giù, dal fondo del «Vallone». Le lunghe foglie fibrose, seghettate fermarono il fagotto alla loro base e lo tennero fermo in salvo; il colpo violento non tramortì Rosaria, anzi la spinse a stringersi ancor più fortemente al figlio, di cui sentiva pulsare il cuoricino; e ciò non la fece volare giù, in fondo al burrone. Non lo vedeva al buio pesto della notte, né alla luce fioca improvvisa delle torce, ma miracolosamente si annunciò la flebile vocina. I cercatori sentirono, si arrampicarono per il dirupo, si avvicinarono all’involto frignante e lo trovarono integro: era come poggiato lì delicatamente da un prodigio. Fu un’allegria inaspettata per i compaesani e i soldati che si passavano di mano in mano l’involto parlante. Poi notarono Rosaria, che, sfidando le pietre acuminate, si teneva sospesa nel vuoto profondo, stretta alle foglie taglienti.

Clara Viscogliosi, nata il 23 novembre del 1937, aveva sette anni ed anche in quel frangente era vispa ed allegra nel viaggio tenebroso tra le braccia del padre. Quest’ultimo era tutto preso a valutare le difficoltà dell’andatura a luci spente del camion che ansimava nella salita e temeva anche per l’inesperienza manifesta del giovanottone spensierato alla guida. Non era del tutto convinto delle sue capacità e, quasi presago di eventuali errate manovre, stava in continua apprensione. Seduto a lato destro del cassone, con la figlia mai ferma sulle gambe comprendeva dai bruschi sobbalzi, che l’andare non era del tutto sicuro. Dopo alcuni chilometri ce ne fu uno più forte; allora afferrò alla vita Clara per tenerla immobile: ci fu la caduta nel vuoto, ma lui continuò a tenerla strette tra le sue mani sollevandola. Il peso lo girò di sotto ed egli ebbe l’avvedutezza di volgere così verso l’alto la bambina. Tale posizione portò alla morte immediata lui, che negli istanti lucidi precedenti alla fine tese le braccia divenute molleggianti e possenti; si piegarono con elasticità e così Clara finì sul suo corpo; saltò a terra incolume come quando giocava nell’aia dinanzi casa. Nel buio della notte avvicinò le manine al suo volto e le ritirò imbrattate di sangue caldo e appiccicoso. Forse si rese conto, forse no: la portarono via subito non concedendole tempo per riflettere.

Nel mese di luglio 1944, al rientro dallo sfollamento, Pasquale Tomolillo ricorda che in fondo al precipizio si trovava ancora la carcassa del camion maledetto e che nei pressi giacevano insepolti molti cadaveri dai quali si sprigionava un puzzo nauseabondo. Anime pietose di Portella pregarono Alessandro Coletta, soprannominato in dialetto «Busciardo», di seppellirli provvisoriamente. Questi poté solo circondarli con pietre e coprirli con la poca terra che riusciva a impalare nel terreno sassoso.

Successivamente i resti furono traslati nel cimitero di Sant’Elia Fiumerapido, probabilmente dai parenti. Infatti Felice Verrecchia, Clemente Verrecchia e Angelo Pomella di Vincenzo, risultano registrati nel Liber Defunctorum dell’Archivio della Chiesa di S. Maria Nova, rispettivamente, ai nn. 45, 46 e 53 del mese di gennaio 1945. Di Carlo Viscogliosi, che pure faceva parte del triste convoglio, abbiamo la lapide del Cimitero, sita a metà del muro est di recinzione, e una confusa notizia della sepoltura.

 .

.

NOTE

1 La data ormai accertata pare sia del 17 febbraio 1944; l’arciprete d. Gennaro Iucci per Clemente Verrecchia e Felice Verrecchia attesta quella del 10 febbraio 1944; sulla lapide del cimitero di S. Elia è inciso il 20 febbraio 1944; la distruzione del Monastero di Montecassino avvenne il 15 febbraio 1944 e i primi camion partirono proprio dopo tale giorno.

2 Testimonianza del nipote, Pasquale Tomolillo, che viaggiava appunto sul primo camion.

3 Jacques Robichon in un passo della sua pubblicazione, Le Corp Expéditionnaire Français en Italie, a p. 294, cita un incidente accaduto per cause diverse lungo la strada Sant’Elia-Acquafondata: che forse si riferisca a quello occorso la notte del 17 febbraio? Certo è che l’autore definisce i «conducteurs … peu familiarisés encore avec l’effrayant engin».

4 Testimonianza dell’insegnante Giuseppe Arpino, che viaggiava sul terzo camion.

5 L’episodio è con fedeltà descritto in Costantino Jadecola, Linea Gustav, Sora 1994, p. 214: «… vuoi per la strada dissestata vuoi per il massiccio fuoco dei tedeschi che, nonostante tutto, controllano ancora il territorio, uno dei camion carico di sfollati che con gli altri si avvia verso Vallerotonda, giunto all’altezza della loggia di Portella, precipita nella sottostante valle dell’Inferno …». Ringraziamo di cuore lo studioso che ci fornì copia del Piano di Ricostruzione di Cassino del 25 maggio 1945, inesistente nell’Archivio del Comune e in quello del Genio Civile di Cassino, che ci permise di scrivere l’articolo su Giuseppe Poggi, comparso su «Studi Cassinati», a. VI, n. 1, gennaio-marzo 2006, p. 42.

6 Registro dei Morti dell’Archivio Parrocchiale della Chiesa di Santa Maria Nuova.

7 La signora Rosaria D’Agostino del 1919 morì una cinquantina di anni or sono a Genova. Non parlava mai dell’episodio; quando il discorso cadeva su particolari della battaglia di Cassino, si chiudeva in un mutismo, restava impietrita dove si trovava con gli occhi chiusi e la bocca serrata. I figli sapevano ciò e non facevano mai allusioni.

8 Dizionario Enciclopedico Italiano: ampelodesmos: s. m. lat. scient. [comp. di ampelo– e desmòs «legame»]. Genere di graminacee con una sola specie: A. tenax: Erba perenne della famiglia graminacee, del Medterraneo. Forma diversi cespugli alti fino a 1,5 m, con foglie dure, convolute e pannocchie di molte spighette; è affine alla canna. Si usano le foglie per lavori d’intreccio. In dialetto il cespuglio è chiamato «stramma» (M. Zambardi, A. Iannacone, La Stramma. Un artigianato in via di estinzione, Cassino 1997).

.

(546 Visualizzazioni)