Vittorio Miele: Testimonianza della sua umanità

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«Studi Cassinati», anno 2020, n. 1-2
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di Cristina Carbonara*

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Dal lutto, dai ricordi sinistri sepolti in quella “terra avara”, alla creazione, al mirabile componimento di quella liturgia d’amore per il Cristo, proscenio di un sofferto mondo interiore e di quella silenziosa, solitaria e poetica, umanità dolente; ho sentito come il desiderio di comprendere ogni cosa, di delineare e contenere l’urgenza di quel raccontare e ancor più quella di non dimenticare. Quando puoi sentire l’odore stagnante di un raccapricciante scenario di morte e il tepore di un focolare domestico, semmai immersi nella leggera brezza di una natura incontaminata, di un campo d’uliveti con quei rami spazzati piegati al volere del vento; vuol dire che si è davanti ad un’opera del maestro Vittorio Miele. Così da questi sentimenti è scaturita, come umile omaggio a quasi vent’anni dalla scomparsa, la mia tesi di laurea sulle tracce di Vittorio Miele: il ciclo La Guerra di Liberazione 1943 – 1944 – Testimonianza. Un amore per l’arte nato un po’ per caso, o forse in parte da un pennello regalatomi, appartenuto al maestro Miele. Quindi fatalmente o no, il mio percorso di vita e di studi, si è fin da subito incrociato con Vittorio, e sebbene non abbia avuto l’onore di incontrarlo, sapevo che in fondo lo stavo conoscendo, poco per volta, dal tocco impalpabile delle sue pennellate, dalla stima che provo per la famiglia Miele e ancor più dall’affetto per la figlia Stefania.

Vittorio Miele, classe 1926, figura tra i nomi più prestigiosi della pittura del dopoguerra, profondamente legato alla sua terra d’origine e alla sua città di adozione, Frosinone; lo si ricorda come «poeta del silenzio», titolo conferito da Duccio Trombadori, per quel suo linguaggio nobile e riservato di chi sa parlare poeticamente a bassa voce, unica possibile espressione del palpitio di un cuore che ancora piange, che non può e non vuole dimenticare gli orrori che lo hanno visto vittima, non solo spettatore, di un lungo calvario iniziato nell’ottobre del ‘43, fino a quel fatidico 15 febbraio 1944 con la distruzione di Montecassino. In quelle interminabili ore vide perire davanti ai suoi occhi la figura del padre, in quello che si sperava fosse luogo di riparo, tra le sterpose pendici della montagna ai piedi dall’Abbazia da cui ne è uscito orfano della vita. Un sopravvissuto al dolore indicibile del lutto e dell’abbandono, anche della sorellina Iolanda di pochi mesi e della madre Scolastica. È dalle ultime voci sussurrate da un padre eretto come un Cristo in croce, dall’urlo strozzato di una madre tra sgomento e pianto, e quella figliolanza deforme come un manto ai suoi piedi, dalla cenere confinata entro un cielo plumbeo, che tutto ebbe inizio.

Miele, animo educato alla tragedia, si porta dentro il suo teatro degli orrori, e lo trasforma in soffio vitale, in passi d’amore, in arte, sua personale catarsi. Uno scenario apocalittico che sceglie di rivivere tra le pareti del suo piccolo studio, come riscatto terapeutico del suo interminabile calvario interiore, esplosione liberatoria dal sacco della sua memoria. Una pittura per non dimenticare l’eco di quel terrore che solo la furia delle guerre comporta, finché non rimanga solo la lotta della disperazione, tra distruzione, sangue e cenere, e poi il nulla, un vuoto, manifesto in bianco e nero della morte dell’umanità che prende il nome di Testimonianza. Raccolta di opere sulla guerra, tanto sincera e pungente, fulcro centrale della mia ricerca, che mai come in questo caso si mette a nudo con gli occhi di un adolescente impotente, per farsi strumento sensoriale, fragile e potente allo stesso tempo, e libero portavoce di un’eredità culturale notevole. Uno scenario che disgusta e non descrive, che va oltre la sua storia, oltre la putrefazione della carne, in un tutto cosmico che rompe gli schemi. Un’atrocità senza pari, epidemia del genere umano che contagia ogni cosa, un orrore privo di parola mai abbastanza riparatrice. Miele mette in scena lo strazio dei ricordi di gioventù come connessioni nervose, lobotomizzate in una pittura che l’ha tenuto in vita, come se da quella terribile rupe a Montecassino ne sia uscito vivo solo grazie all’arte, dono fatale, lavacro purificatore. È in quegli schizzi nervosi, senza retorica, di sagome non finite, cadaveri in “fosse comuni”, dove vittime e carnefici si ritrovano in uno stesso spazio indefinito, che Miele ci ricorda quanto non faccia differenza alcuna, tra vinti o vincitori, alleati o nemici, perché tutto si riduce a scheletri senza proprietà e ciò che rimane di questo incrociarsi di segni, forme anguste e inconsuete, sono solo asciutti scarabocchi privi di colore.

«Una scena indescrivibile. Mio padre era come una grande croce all’ingresso della grotta. Mio padre parlò – forse solo a se stesso – senza voltarsi. “Forse passano soltanto” disse di quegli aerei giunti all’improvviso, le sue ultime parole. Mi è rimasto, nella memoria, il tono, il suono delle parole, più che le sillabe strozzate. E in quell’istante tutto crollò. Davanti ai miei occhi scomparve la figura di mio padre». Testimonianza è il diario di una strage familiare quanto l’immorale traccia dell’orribile codice che la guerra infligge nel nostro tempo. Immagini eteree entro una forma di staticità iconica tale da consentire a chi guarda, anche la più improbabile immedesimazione, fino a credersi testimoni, farsi carico di quel ricordo come riscatto dell’umanità, e crescere nel segno della libertà, rispetto e tolleranza. «Io sono sempre pessimista sul comportamento dell’umanità, interpreto il futuro alla luce degli avvenimenti passati, con l’uomo che si distacca sempre più da sé stesso. Ci stiamo separando, ma spero di sbagliare. E questo mi rende un ottimista – pessimista. Preferirei aver visto la storia cambiare attraverso la cultura e l’arte e non attraverso la violenza. Vorrei che la società imparasse ad amare l’arte. Certo non si può imparare l’arte se non la si sente, deve essere una cosa spontanea. Tutti i miei lavori esprimono una nota di tragicità. Sono una testimonianza di quel genere di vita. E non voglio vedere nessun altro soffrire in quella maniera». Già nelle opere giovanili, celate tra le increspature del giallo, del vermiglio, tra le striature di cadmio o biacche corpose, si colgono le piaghe e le pieghe di malinconici e trasognati volti femminili o di muri ingombranti di una casa isolata ai piedi di una collina. Trame che si riscoprono come in una fiaba, un sogno di un ossessivo refrain, precipitando entro i margini di un paesaggio della memoria, in un perpetuo presente che al contempo si fa preambolo ed epilogo dell’intera vicenda umana. Tutto si fa straordinario, irripetibile e romanticamente nostalgico nella poetica di Miele. Anche la più ordinaria delle scene sembra riflesso velato di quell’affanno atavico, dove la sofferenza, carica di realismo sognante, non gli ha mai impedito di soffermarsi sulla bellezza delle più piccole cose. Così prendono forma i suoi Arlecchini, gli scorci innevati canadesi, con quell’uso della luce e del colore che prende il posto del grigio, e quella costante figura femminile tanto cara, dove è il rosso a fare da padrone sul buio.

Ho tentato di ricostruire tra critica, poesie, dediche e lettere un intimo racconto di un viaggio a caduta libera nelle sue interminabili battaglie di vita e nella sua arte. Da quei racconti, perdersi è stato solo un dono incommensurabile, scavando nelle sue paure che sono in fondo vicine a quelle di tutti noi. Miele, pittore cantastorie della commedia umana, ha trascritto con quella sensibilità e bontà d’animo un’istantanea dell’esistenza umana. Una poetica che ha saputo cogliere il volto stesso della bellezza tanto in un vaso di fiori perso nella sua stanza solitaria, quanto in quei suoi alberi che, con i loro tronchi contorti, gridano il diritto alla vita. Un’eredità morale, storica e di vita quotidiana da custodire come un dono. Una lettura apparentemente semplice come il tocco di un fanciullino, ma che nasconde il peso di quelle parole tra le righe, tanto nei generosi strappi di colore quanto nell’inattesa prospettiva sovra-margine. Consapevole che, per conoscere realmente l’impegno di Miele serva ripercorre i suoi primi passi, rileggere la sua storia con nuovi occhi, carichi del suo stesso stupore e terrore, riscoprirla per poi teneramente perdersi ancora, nella curva dei suoi tratti o nella durezza di linea, perché si possa davvero cogliere tutte le sue sfaccettature, intrecciate come groviglio spinoso di una stessa matassa.

«Per lunghi anni ho rivisto incessantemente il film della mia giovinezza; in bianco e nero, quasi che le tragedie fossero orfane di qualsiasi colore. Eppure il sangue è rosso, mi chiedevo. Tutto scorreva dinanzi a me in una sorta di grigio assoluto, di assenza di contrasti. Non ho cercato e non ho creato una pittura del dolore ad uso e consumo dell’osservatore ma ho semplicemente scritto il mio diario in maniera insolita, sostituendo alle parole abituali l’unica forma espressiva che conoscevo, la pittura. Ma il dolore non è soltanto in quei volti scavati o nei corpi saccheggiati di ogni volontà. È nei fiori solitari posti sul tavolo solitario in una stanza altrettanto solitaria, nelle colline d’inverno quando la neve cela ogni traccia di vita, o in quell’incedere grottesco delle mie figure cittadine».

Ho riconosciuto in quel piccolo e modesto pittore riservato, un grande maestro di vita, meritevole di ogni attenzione, conoscenza e comprensione; ma soprattutto un artista sensibile che si è da sempre sottratto ai falsi miti e vuote ritualità, per perseguire con costante dedizione, la ricerca della verità, lasciando come afferma Rocco Zani «un patrimonio di straordinario vigore fatto di racconti minimi, di tensioni, di nuvole … di affetto».

Una pittura raffinata, epifanica, che una volta conosciuta, entra nei cuori di tutti noi, e si fa messaggio di un valore culturale universale. Miele comprende quanto il suo fare pittura offra l’opportunità di cambiare la percezione delle cose, la rotta che passivamente o negativamente sembra sia già segnata, e lo fa urlando con poesia, senza presunzione di modernismo o retorica. Non è forse questo il potere magico dell’arte? Elevarci oltre le barbarie del reale, oltre un io – finito, tangibile e decadente, oltre l’insensatezza e l’apatia, riaprendo quel vaso di Pandora che offusca la nostra mente, liberando la speranza e con essa i valori universali di vita. Miele si è fatto carico dei mali del suo tempo strappandoli a denti stretti, con la stessa tempra di un ragazzo che avvilito dalla perdita del padre, ha saputo rialzarsi con la passione di un uomo che non ha mai smesso di credere e dipingere. La tesi nasce dunque da questi sentimenti: valorizzare, custodire e divulgare l’eredità culturale che Vittorio Miele ci ha lasciato, quella di impedire ai nuovi mostri di risvegliare ferite vergognose della nostra storia, diffondendo unicamente quel grido di pace che invochi e scuota l’uomo ad essere soprattutto e prima di tutto, umano.

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* Autrice di una tesi sul pittore Vittorio Miele ci restituisce in questo prezioso articolo il senso e il peso della sua ricerca, la storia di un emozionante percorso narrativo.

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