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«Studi Cassinati», anno 2020, n. 3-4
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Illustrissimo direttore,
ho letto con grande attenzione l’articolo dell’amico Pistilli intitolato: Non è Cassino, ma Montecassino pubblicato sull’ultimo numero di «Studi Cassinati» che Lei dirige.
Ha richiamato la mia attenzione quell’affermazione così categorica: «Non Cassino …».
La prima parte dell’articolo in cui si riepiloga la storia della città, è un capolavoro di brevitas e di chiarezza; ma la seconda, la più importante, non mi convince e penso che non convinca tanti lettori.
La tesi rivoluzionaria che il Pistilli vuol dimostrare è questa: quando il sommo Poeta, nel canto XXII del Paradiso dice: Quel monte a cui Cassino è ne la costa…., in quel «Cassino» non va intesa la città, la vecchia Casinum, ma il monastero stesso, cioè il nostro Montecassino.
E come il nostro spiega ne la costa? Con grande disinvoltura dice che equivale a sulla costa. Cioè Dante, secondo l’articolista, avrebbe voluto dire Quel monte sulla cui costa è(!) Cassino, il monastero chiamato «Cassino».
La città uscirebbe quindi del tutto fuori di scena; anzi non sarebbe nemmeno nominata, mentre sappiamo che fu il punto d’arrivo del lungo viaggio del Santo Patriarca e il punto di partenza del suo futuro operato.
È una tesi che a dirla temeraria è poco.
I versi del XXII Canto sono di una chiarezza unica. Il poeta distingue molto bene la città di Cassino che giace alle pendici del monte e il monastero che è sulla cima del monte stesso e non nella costa (o sulla costa).
Dante ha letto certamente i Dialoghi di Gregorio Magno, unica fonte della vita di San Benedetto, giacché la biografia del Santo scritta dal discepolo Fausto andò perduta.
È a conoscenza della tradizione storica benedettina. Gli uni e l’altra concordano nel sostenere che: – San Benedetto giunse a Cassino dopo aver percorso circa cinquanta miglia da Subiaco; – trovò la città mezzo pagana se non del tutto pagana; – salì sull’acropoli; – distrusse l’altare di Apollo; – abbatté il bosco sacro; – costruì il suo monastero sulle rovine del tempio pagano; – quindi si dedicò a predicare e a convertire prima i pochi abitanti del luogo, pastori e boscaioli, poi la città ai piedi del monte e i popoli vicini.
Poteva dunque ben scrivere che sulla costa c’era la città, che il monastero era sul monte.
Induce il nostro alla sua spericolata ipotesi l’interpretazione del passo del Chronicon (Libro II, Cap. 1) in cui si dice che gli Aquinati, condotti da Megalù, gastaldo della città, si erano impadroniti durante l’esilio dei monaci a Teano prima, a Capua dopo, della Flumatica tutta e dei territori adiacenti fin quasi ai piedi di Cassino, ab ipso fere Casino.
Per Pistilli qui «Casino» è senz’altro il monastero, non la città, non la vecchia Casinum.
La ragione? Perché quando Leone Ostiense scrive il Chronicon (1077) la vecchia Casinum non si chiamava pitù tale, ma San Pietro a Monastero.
Il nuovo nome le era stato dato da quando, nel 744, la duchessa Scauniperga, moglie del duca beneventano Gisulfo junior, donatore al monastero della Terra Sancti Benedicti, aveva restaurato un vecchio tempio pagano, l’aveva trasformato in chiesa cristiana e l’aveva intitolata a San Pietro apostolo. Di qui il nome al rione.
La conversione nel nuovo nome, si badi bene, non avveniva per decreto di una qualche autorità istituzionale, bensì lentamente nel tempo, per uso popolare.
Per i cristiani convertiti era più facile, naturale e consono alla nuova fede dire: vado e abito a San Pietro che a Casinum.
E in un’opera dotta come il Chronicon non è normale che si indichi la città col vecchio nome storico e ancora ufficiale?
Conferma questo mio ragionamento la consuetudine del cronista Leone Ostiense di servirsi di circonlocuzioni per indicare il monastero.
Spessissimo ricorre alla perifrasi «questo luogo» come quando dice: «venne a questo luogo, vennero a questo luogo».
Chiama il monastero di Montecassino il «monastero di su», per distinguerlo da quello di giù cioè dal monastero adiacente alla chiesa del SS.mo Salvatore in San Germano.
Oppure, più frequentemente, «venne o vennero alla tomba di San Benedetto».
In casi rari chiama il monastero «Cenobio o monastero cassinese» (che sta sul monte di Cassino).
Nel caso in questione se lo storico avesse voluto dire che gli Aquinati erano arrivati fin quasi al monastero, avrebbe con molta probabilità scritto non «a casino», ma ab hoc loco, non lontano da questo luogo.
Rileggiamo l’episodio di Gisulfo, duca di Benevento, descritto nel Libro I, Cap. 5 del Chronicon.
«(Gisulfo) dirigendosi a Roma in quei giorni con un grande esercito, passando per questa rocca di Cassino, che allora si chiamava Mello, sale su con moltissimi dei suoi… al luogo ove si custodisce il corpo del santissimo padre Benedetto».
In queste poche righe si affermano tre verità:
- che qui c’è una città chiamata Cassino; con un castello presidiato evidentemente da una guarnigione longobarda;
- che sul monte (e non su la costa) c’è un monastero cui si dirigono il duca e i suoi;
- che di questo monastero non si cita il nome e lo si indica come «il luogo dove si custodisce il corpo del santissimo padre Benedetto».
Questa era la situazione nell’anno 744, dopo due secoli dalla fondazione del monastero.
Mi si dirà che dal 744 all’invasione degli Aquinati corre un bel lasso di tempo che tante cose forse cambiarono; che forse si precisò l’identità del monastero stesso.
Analizziamo quel lasso di tempo. Prendiamo come termine ad quem il 960, anno in cui l’abate Aligerno, mentre controlla i lavori della Rocca Janula, sorpreso e fatto prigioniero da Megalu perché l’abate rivendica i territori invasi dagli Aquinati.
Dal 744 sono quasi due secoli.
In realtà è appena un secolo, perché nell’883, con la devastazione dei Saraceni, la vita del monastero cessa e con essa quella del territorio.
«Non rimase un soffio di vita» scrive Erchemperto nella sua storia dei longobardi.
Tornarono le paludi e la morte.
Ebbene in quel secolo il cronista non ci segnala nulla di eccezionale se non visite, pellegrinaggi, piccole scaramucce.
La vita del monastero segue il suo corso normale, scandito dal ripetersi regolare degli uffici divini, l’opus Dei!
«Perché la preghiera è il vincolo del nostro sodalizio e della nostra fatica, il nostro mestiere» dirà un giorno un illustre monaco, Luigi Tosti.
Durano quasi un secolo lo squallore e la morte.
Ci volle un abate energico e combattivo come Aligerno per ricominciare. Ma Aligerno fu un restauratore, provvide con la Rocca Janula ed altri castelli a difendere la popolazione rimasta e l’Abbazia dai riottosi signori di Teano e di Aquino; ricompose nella loro unità gli 800 kmq del territorio, salvò il patrimonio di San Benedetto, ma non creò nulla di nuovo.
Si tornò allo status quo ante.
A poco a poco la vita riprese il suo corso normale e ci si avviò al trionfo di Desiderio subito dopo il Mille.
All’esaltazione di questo trionfo giunge la cronaca di Leone Ostiense, prolungata poi fino al 1138 da un altro monaco, Pietro Diacono.
Leone Ostiense non muta il suo stile, non scrive mai di un monastero chiamato «Cassino».
All’amico Pistilli va dato atto di aver provocato un’attenzione e una riflessione più attente e critiche su tanta parte della nostra storia, perché la storia di Montecassino è anche la nostra storia.
Ma non possiamo non rilevare che forse si è lasciato un po’ troppo trascinare dalle sue pulsioni di originalità: Padre Dante merita un po’ più di rispetto e di gratitudine.
O forse la sua è stata una rivolta contro l’indifferenza per la nostra storia, contro il nostro quieto adagiarci sulla tradizione?
Emilio Pistilli resta il nostro più caro, vigile custode delle nostre origini, del nostro patrimonio culturale e storico.
Con i dovuti ossequi e cari saluti, caro direttore.
Francesco Gigante
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Emilio Pistilli risponde al prof. Franco Gigante
Constatare che l’amico Franco Gigante si è occupato del mio modesto (e forse anche maldestro) scritto non può che lusingarmi, visto il suo acclarato valore di studioso di cose medioevali. Ho letto con attenzione le sue contestazioni temendo, inizialmente, di esserne dequalificato. Ma, a conti fatti, devo concludere che le sue osservazioni, degne di ogni rispetto, non confutano minimamente le mie considerazioni: basta rileggere senza pregiudizio il mio testo, anche se la complessità della questione non ne facilita la comprensione.
Si dilunga sul passo relativo al gastaldo Megalu, proponendo una sua lettura che ha solo valore di supposizione, così come lo è la mia, tralasciando però il cenno alla distanza di quasi due miglia, cioè tre chilometri da San Germano (ab ipso fere Casino, qui non integris duobus milibus a civitate Sancti Germani abest): è indubbio che l’antica Casinum dista meno di un chilometro dall’odierna Cassino (già San Germano), mentre è Montecassino che dista da Cassino circa tre chilometri, considerando gli antichi percorsi. Ci dica dunque il prof. Gigante cosa possa essere secondo lui quel «Casino» distante circa tre chilometri dall’odierna città. Per aiutarlo gli ricordo che Angelo Della Noce, curatore della preziosa edizione seicentesca del Chronicon, in nota esclude che il passo in questione si riferisse a Casinum, vista la distanza, ma propende per il rio «Casino» o Fontanelle, cosa, quest’ultima, assai improbabile.
Il Nostro argomenta a lungo sui passi del Chronicon cassinese, di cui è gran conoscitore avendolo egregiamente tradotto (lavoro immane!), tralasciando, però, tutte le altre mie questioni e testimonianze (vd. per esempio il mio cenno a re Ratchis, con la moglie Tasia e la figlia Rattruda), e, prime fra tutte, quelle relative a Riccardo da San Germano, che più e più volte dice «Casino» per indicare Montecassino1. In effetti il termine «Casino» è da considerare una pratica abbreviazione del più lungo Montecassino.
Ma qui devo avvertire che al primo rigo della pag. 116 del mio articolo ho scritto erroneamente «Pietro Diacono» anziché «Riccardo da San Germano»: imperdonabile lapsus.
E come ignorare, ben prima di Riccardo da S. Germano il poeta Alfano, arcivescovo di Salerno (1015/1020 – 1085)? nei suoi Carmi innumerevoli volte scrive «Casino» per Montecassino. Solo per fare qualche esempio: nel secondo inno dedicato a S. Mauro, discepolo di S. Benedetto, il Poeta dice: Casini dulce solum, il dolce suolo di Cassino (n. 6-23); oppure Ecce, Casinus abundat eis, mons venerabilis, aula Dei, ecco Casino che abbonda di essi (monaci), venerando monte, dimora di Dio (n. 32-65), ecc.
Ma tornando a Dante non si può dire che il sommo poeta avesse visitato i luoghi di San Benedetto (quelli di cui parla): nulla ce lo fa presumere: dunque non era certo conoscitore della topografia di Cassino e Montecassino e tanto meno di San Germano. Pertanto si può essere certi che la sua unica fonte fosse quella del biografo del santo, papa Gregorio Magno e i suoi Dialogi, scritti verso la fine del Cinquecento, quando c’era ancora memoria tangibile del Castrum quod Casinum dicitur cui accenna, e questo vale a maggior ragione per i tempi precedenti di S. Benedetto. Ma attenzione, Dante non fa dire a Benedetto Casinum (o «Casino» volgarizzato): dice «Cassino» usando il termine col quale ai suoi tempi – sia pure nella forma inusuale della doppia «ss» – si indicava il monastero (vd. più su Alfano e Riccardo da San Germano). Mi pare del tutto evidente che, ignorando le vicende della scomparsa città romana e della nuova San Germano, non si ponga la questione di cosa si volesse dire con «Cassino»: ha semplicemente riportato quello che ha letto; dunque il suo non può essere considerato un rinvio esplicito e consapevole alla Casimum romana.
Franco Gigante mi descrive in preda a «pulsioni di originalità» e aggiunge: «Padre Dante merita un po’ più di rispetto e di gratitudine»: ma cosa c’entra questo? Da parte mia invece potrei dire che il mio illustre censore è in preda a «sacro furore» per aver io messo in dubbio ciò che da sempre è stato accettato, anche acriticamente, e cioè che il «Cassino» dantesco fosse l’odierna Cassino.
Il mio articolo ovviamente non è la «rivelazione» di una verità indiscussa: è la proposta di una diversa lettura del passo di Dante. Questo vuol dire che non ho alcuna difficoltà ad accettare che per «Cassino» il sommo poeta potesse intendere effettivamente l’antica Casinum: bisognerebbe entrare nella sua testa per conoscere la verità.
Tuttavia non sono il solo a fare ipotesi diverse dalla nota vulgata, e l’amico Franco lo sa certamente: c’è chi, interpretando il passo di Gregorio Magno, dove accenna ad un «altissimo monte», ritiene trattarsi di monte Cairo, che «allargandosi in una spianata, accoglie la suddetta fortezza, ma poi, continuando a salire per tre miglia protende la sua cima quasi fino al cielo»2 e suppone che per «Cassino» il poeta intendesse Montecassino.
Certezze indiscutibili però ne abbiamo:
- quando Dante scriveva Quel monte a cui Cassino è ne la costa, dell’antica Casinum non si parlava più da secoli (forse l’ultimo a farlo fu proprio Gregorio Magno);
- quando ai suoi tempi si diceva «Casino» (o «Cassino») ci si riferiva all’abbazia di Montecassino e non alla sottostante città che allora era San Germano. Non per nulla il termine «Cassinesi» è da sempre riferito ai monaci benedettini. Ma per questo rinvio a quanto ho frettolosamente accennato nel mio articolo e su cui l’amico Gigante ha stranamente sorvolato. Dunque – e lo ribadisco di nuovo – il poeta non pensava minimamente all’odierna Cassino, come comunemente oggi si crede, perché ai suoi tempi la città si chiamava San Germano. Ed è da quest’ultima constatazione che muove il mio contestato articolo. Poi ognuno può consapevolmente ritenere che il passo dantesco si riferisse a Casinum o a Montecassino.
Ringrazio comunque l’amico prof. Franco Gigante per il suo intervento: in ogni dibattito c’è sempre qualcosa di positivo.
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NOTE
1 Tanto per elencare solo alcune citazioni, nell’edizione di A. Garufi, Zanichelli, si vedano le pagg. 146, 161, 164, 169, 173, 191, 197, 203 ecc.
2 «Castrum namque, quod Casinum dicitur, in excelsi montis latere situm est; qui videlicet mons distenso sinu hoc idem castrum recepit, sed per tria millia in altum se subrigens, velut ad aera cacumen tendit …».
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