Il viaggio di Cesare Pascarella in Ciociaria nel 1882-1883


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«Studi Cassinati», anno 2023, n. 1
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di Marcello Ottaviani

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Cesare Pascarella busto nell’atrio del Comune di Fontana Liri dello scultore fontanese Franco Bianchi, 1981.

Cesare Pascarella nacque a Roma il 28 aprile 1858 da Pasquale, originario di Fontana Liri, e da Teresa Bosisio, di origini piemontesi1. Grande viaggiatore2, nel 1883 lo troviamo sul treno che da Roma lo porta a Ceprano3, in procinto di visitare la Ciociaria. Scende alla stazione e cerca una vettura. «Sullo stazzo, dietro la stazione, un legno cui erano attaccati tre scheletri di cavalli, flagellati da nugoli di tafani, stava ad arroventarsi al sole. Il vetturino, un tipo davvero selvaggio e nero, se la dormiva su un mucchio di fieno, poco lungi e russava profondamente»4. Il poeta cerca di svegliarlo, ma inutilmente. Allora una contadina «…che stava, poco lungi, seduta, veduto che non s’era riuscito di svegliarlo, si alzò e avvicinatasi al dormiente gli applicò due calci nel … gridandogli: “Arrizzete, Ciccantò, ca s’è fatto juorno, veh!”»5. Il vetturino Ciccantonio, indossa il tipico abito paesano dell’epoca ed è pieno di medaglie e santini. Si alza e la vettura s’incammina sulla strada polverosa in direzione di Ceprano. Ciccantonio ha sul petto una lunga incisione della Santa Casa [la Casa di Loreto], con la data 29 giugno 1855, spiega al poeta come a Loreto fanno il tatuaggio: «Apprima ce passeno lu rasore. Apo’, strignenno la pelle, ce passeno via via co’ na penna d’acciare, su la stampa che ci avo fatta apprima. Apo’ ce metteno lo gnuostro e la fav’ascì!»6. Il vetturino bestemmia come un turco (osserva, però, il poeta che i Turchi non bestemmiano!) e a ogni chiesetta che incontra, a ogni croce, «si toglie il cappello, sul quale tien legata una madonna di carta, e grida “Madonna ajutace7. Arrivati

Ciccantonio (disegno di Cesare Pascarella).

al centro di Ceprano Ciccantonio si ferma per un’ora e Pascarella ha modo di girare per il mercato, osservando tutto con attenzione. La descrizione è sintetica ma chiara e precisa: ammira le stupende contadine, attratto dai colori vivaci e chiassosi delle vesti e dei busti indossati. Entra in un’osteria e mangia «… per pochi soldi, una buona bistecca e un bel piatto di frutta fresca e saporita»8. Dopo due ore ripartono, percorrono la Casilina e giungono ad un paese “«che porta il nome guerresco di Arce»9. Il paesaggio intanto è cambiato, non più campi coltivati con filari di viti e olmo, ma distese di olivi. Dopo “San Leuterio”, si comincia a sentire un acuto odore di zolfo e Ciccantonio, da esperta guida, spiega che «arreto a chilli chiuppi v’è un lago chiamato Zulufraga»10. È il lago Solfatara di Fontana Liri, le cui acque solforose sono vendute nei paesi vicini in grandi quantità. Le fontanesi portano in casa l’acqua con le “cannate”. Una giovane offre da bere l’acqua all’artista e lui nota meravigliato che ha il sapore … dell’acqua sulfurea! Il vetturino mostra al poeta la voragine detta «Fossa del Monte», «fossa agliu monte», che si apre sulla collina “Le Cese”: gettando nella fossa «nu portuvalle», questo va a finire nel lago11. Il carro imbocca la ripidissima salita che porta a Fontana Superiore (erroneamente Pascarella scrive Fontana Liri), la visita e parla con i paesani.

Vicienzino con “Vicienzino” (disegno di Cesare Pascarella).

È d’obbligo a questo punto cercare di capire il percorso che fa Pascarella. Nel suo scritto sulla Ciociaria non indica il tragitto seguito in ordine cronologico. Il libretto si apre con Pascarella, che parla in piazza con dei paesani e chiede come giungere a Monte San Giovanni. Uno dei paesani si offre di procurargli un asino con una guida e in tre ore, per scorciatoie, potrà arrivare «agliu monte». Si può solo intuire, dal seguito del racconto, che la piazza sia quella di Fontana Superiore12.

Il giorno dopo Pascarella trova un bell’asino e un bel ciociaretto che l’aspettano sulla piazza di Fontana. S’incamminano e scendono per scorciatoie impervie, passano il Rio e quando può il poeta legge il programma della festa, avutolo dal parroco della Collegiata. Poi chiede come si chiama l’asinello: «Vicienzino», risponde la guida. «E tu come ti chiami?», «Io? comme a isso! Vicienzino puro»13. Per sentieri impervi giungono al «Fosso della Faina»14, poi a «Capo Ciuffone» così chiamato «…perché vi stette conficcato sopra un palo il capo di un brigante»15. Arrivano nella località oggi chiamata «Braccio d’Arpino» e scendono verso «gliu capotonno»16 dove incontrano una piccola comitiva guidata da un prete che porta al cimitero di Fontana Superiore una persona morta: «Innanzi veniva un contadino recante un Cristo, dipinto su una croce nera; lo seguiva un prete con la stola nera orlata di ghirigori gialli e con un fazzoletto bianco gettato su la berretta; poi veniva la bara sorretta da quattro contadini seguiti da cinque o sei contadine affatto tristi e con le mani incrociate sul petto»17. Pascarella arriva a «Fonte Cupa»18, attraversa il ponte in ferro sul Liri, fatto costruire nel 1873 da Valentino Lucernari, giunge ad Anitrella19. Ammira il «Rajo», il punto più stretto del Liri, dove le acque con grande fragore giungono più in basso al «Vitarello». Il centro di Anitrella è un giardino, con gli oleandri in fiore e un pavone che fa la ruota al sole: «Attraversando questo sito, che il conte Lucernari ha reso un pezzetto di paradiso, si gode un po’ la frescura sotto gli oleandri fioriti e fra i boschetti di lauro…»20. Dopo Anitrella la strada comincia a salire verso Monte San Giovanni. «Sotto il monte San Giovanni, incominciammo a incontrare gruppi di contadini, vestiti a festa, che salgono su al paese, seguiti dalle loro donne, vestite splendidamente … ne vidi una di coteste contadine, tutta vestita di seta verde-pisello e piena di collane d’oro, che, … si avvicinò a una siepe, si cavò scarponi e calzette e … via, su, agile e svelta come un gatto»21.

Uomo con la mozzetta e la pipa (disegno di Cesare Pascarella).

Dopo aver salito un gran numero di scalini, Pascarella giunge sulla piazza del paese. Come in tutte le feste ci sono venditori di orologi, banchetti in cui si gioca a dadi, indovine che predicono il futuro, saltimbanchi. In fondo alla piazza, la Cattedrale magnificamente addobbata, era piena di fedeli, si sentivano le «distinte voci romane» echeggiare sotto le navate, ma il poeta non si ferma e preferisce continuare a girare per il paese22. Esce intanto la processione e l’artista ha agio di osservare alcuni personaggi curiosi: contadini vestiti di sacchi bianchi, gialli, rossi, verdi, che portano stendardi, croci, bandiere; canonici con le mozzette23 violacee. «Finalmente fra nugoli di incenso, seguita da un concerto che suonava la nenia “funiculì funiculà” e dai fedeli, che gridavano le lodi della Madonna, comparve, giù, in fondo a la viuzza nera, la “machena” rilucente, d’oro»24. Tra gli scoppi dei mortai e i canti dei fedeli la processione giunge sul monte S. Marco, mentre «grida convulse si alzavano ne l’aria, le trombe squillavano la marcia de l’Aida e i colpi dei mortari rimbombavano fragorosi giù ne la gola de la montagna»25. Pascarella entra in una trattoria per mangiare e un ragazzetto gli porta «un boccale di vino nero, un piatto … e una enorme pagnotta di pane nero; poco dopo tornò Loretaccio [l’oste], con una padella, in cui, fra un intingolo rosso, nuotavano, friggendo, i brani di un pollo»26. Ma il tempo stringe, s’è fatta sera, dopo un ultimo giro nel paese, ritrova Vicienzino (che vorrebbe assistere agli spari) e cominciano a ridiscendere il paese. Incontrano una chiesa diroccata, «sgherrupata»27, che incanta il poeta il quale, al chiarore della sua pipetta improvvisa questi quattordici splendidi endecasillabi28:

Batte la luna gialla su l’arcate
 cadenti d’una chiesa bisantina
e, ne la calma tepida d’estate,
 ne lumeggia la splendida rovina.

E, giù, nel buio, stridono volate
di vipistrelli e cade la calcina
sopra le sepolture istoriate

E fra i rottami, stretto s’attanaglia
un caprifico in fiore. E da le rare
pitture, che ricopron la muraglia
da stemmi e da l’epigrafe latina
guardano le madonne…E nel chiarore
giallastro, sul sagrato d’un altare,
due gatti bianchi spasiman d’amore!

È notte alta, Pascarella avrà dormito da qualche parte, ma non ne parla.

La mattina dopo ritroviamo Ciccantonio con la sua vettura e il poeta diretti a San Domenico di Sora. Sulla strada che conduce a Frosinone e a Roma incontrano diversi carri, enormi, tirati da dieci, dodici cavalli, che trasportano a Roma balle di carta e pezze di «pannine»29 dalle fabbriche di Sora, Arpino, Isola Liri, Anitrella30. La strada è occupata da una grande folla di fedeli, che si recano a pregare il Santo. In lontananza si vede Veroli e il vetturino spiega che là fu ucciso il brigante Chiavone31. Vengono raccontate le vicende dell’Abbazia di S. Domenico mentre la vettura, dopo Isola Liri Inferiore, giunge alle «Forme», Isola

Giovane con la bavuttina (disegno di Cesare Pascarella).

Liri Superiore, dove nell’Ottocento sorse un nuovo paese, «… che s’allunga giù giù al santuario [di S. Domenico]. Sessanta anni fa … non vi erano che poche e misere casupole di contadini, ma le industrie dei nostri tempi, servendosi a meraviglia de le acque del Liri e del Fibreno, fecero sorgere su quelle sponde una città. Cartiere, lanifici, molini, ville splendide, casine sursero in pochi anni, e formarono di quei luoghi, prima squallidi e deserti, un sito pieno di attività industriali e commerciali»32. Avvicinandosi alla chiesa, la folla aumenta. «I “sciarabbà33 passano di carriera, ne la penombra, e i “cocchieri”, schioccando la frusta, gridano a squarciagola: “Santo Dominico… santo Dominico…34. Pittore, oltre che poeta, Pascarella ci dà una descrizione vivissima della scena: a sera il piazzale antistante la chiesa è rischiarato dalle lanternine delle bancarelle rosse, gialle, azzurre; i contadini saltano al suono degli organetti e delle zampogne. Non vi sono, però, solo contadini, con i cappelli coperti di fiori, stretti, impettiti nei loro corpetti rossi, con la pipa in bocca e la giacca sulla spalla, ma anche giovani borghesi. «Ne vidi alcune elegantissime vestite, … mi sta innanzi agli occhi una biondina, con il volto incorniciato da una bavuttina35 nera, che andava qua e là godendosi la festa, e regalando soldi alle contadine, che le si tiravano dietro baci e benedizioni»36. Intanto i pellegrini appena entrati «si gettano lunghi su la terra, la baciano, levano alte le mani e fanno le penitenze. Le donne cavano da le ceste di vimini i bimbi seminudi e levandoli in alto implorano dal santo benedizioni e grazie. Gli uomini, intanto, sciolgono i “voti”»37. Si susseguono scene di religiosità primitiva e superstiziosa, ma ad un certo punto Pascarella si allontana dalla chiesa e incontra un giovane che gli dà notizie su un altro frequentato santuario, quello della Madonna di Canneto. Il poeta si rifugia sulla sponda tranquilla del Liri, sotto i salici e i pioppi; nell’aria si diffonde il profumo della menta e il trillo dei grilli38.

Il mattino dopo, molto prima dell’alba, con la nuova guida Mengaccio, Pascarella s’incammina alla volta di Santopadre39, percorrendo sentieri e scorciatoie. Il paesaggio è bello, si susseguono lungo la montagna boschi di castagni e querce secolari. Un pastorello guida le sue capre belanti al pascolo e una pastorella le sue pecore. Si riposano vicino ad una limpida sorgente d’acqua.

Purtroppo la bellezza della vita e della natura, si mescola con la morte. In una chiesuola si piange la morte di una bambina, il poeta è commosso e depone sulla piccola un mazzo di fiori di campo e dona alla madre qualche moneta. Con saggezza antica un vecchio si rivolge alla madre: «Fulomè!… nun ce pensà, ca chillo ca fatto chessa ne fa n’auto40. Mengaccio, poi, spiega a Pascarella quali sono gli usi funebri in quel territorio. Quando una famiglia perde un suo caro, i parenti a turno tirano fuori dalle loro «arche»41 pane «ruscio»42, lardo, frutta e legumi, si recano in casa della famiglia in lutto e preparano il banchetto. «Il piatto di rito è una scodella di fave, con quella si principia il banchetto»43. I pranzi si susseguono per diversi giorni, perché ogni parente prepara un pranzo44. Pascarella descrive altri episodi della visita a Santopadre, fra cui l’incontro con uno strano fotografo milanese, finito lassù chi sa come. Il poeta si fa fotografare, poi mangiano insieme pane e formaggio di Scanno45. Sul monte Campea visita una chiesa diruta, dedicata a S. Pietro. «Vicino a le rovine della chiesa, fra gli olivi e le querce, s’alzano gli avanzi de la villa di Giunio Decimo Giovenale, il satirico d’Aquino»46. Ascolta poi da Don Antonio La Fregana, un prete di novant’anni, le «istorie» di Don Folco, un prete di Santopadre conosciuto in tutta la Ciociaria per la sua vita stravagante47.

Da Santopadre Pascarella si dirige verso Casalvieri, ammirando il paesaggio che attraversa48: «Sono valli profonde, in fondo alle quali lustrano, come lame brunite, i torrenti che corrono a gittarsi nel Liri»49. Si avvicina un forte temporale, tuoni, lampi, fulmini, il poeta e la guida si rifugiano in una chiesuola, fradici di pioggia e intirizziti dal freddo. Sul muro dell’edicola vede affrescata una Madonna: sul suo manto azzurro, inciso con una lama, legge: «Onorio Recchia latitande de Casaviero di matina di pesima pioggia assai sono ricoverato qui senza timore de li nemici mia»50. Scendono dalla montagna e giungono a «Colle Fosso», una borgata di piccole case. Incontrano donne, «nei loro severi costumi neri, la fronte fasciata con un panno bianco, che con le loro cannate sulla testa, vanno ad attingere acqua ad una fontana … sembrano figure … balzate fuori da una pittura etrusca»51. Cercano una locanda decente per passare la notte, ma non la trovano e passano la notte in bianco. Al mattino salgono su uno «sciarabba» e giungono ad Atina. Finalmente sulle assi del carro possono dormire. Il giudizio del poeta su questa antica città è poco lusinghiero, ma il panorama che si presenta ai loro occhi è da ricordare: individuano Settefrati, Picinisco, la Valle di Comino, San Donato, Vicalvi, le montagne di Sora52.

Donna con cannata (disegno di Cesare Pascarella).

In un secondo viaggio Pascarella arriva alla stazione di Frosinone e visita Alatri, Guarcino e Arcinazzo, per giungere al Santuario della SS. Trinità di Vallepietra, frequentatissimo (ancora oggi) dai fedeli. Si ripetono le stesse scene di religiosità primitiva, non molto dissimili da quelle che abbiamo descritto, scrivendo di S. Domenico53. Merita di essere ricordato un delitto efferato, che un contadinello racconta al poeta54. Il giovane indica una quercia: «…chella se chiamma li quarti de Baragà». Un francese, un tal Baragas, uccise un pastore per derubarlo. Fu arrestato, condotto a Napoli, giudicato e impiccato. Il suo corpo fu spedito a Vallepietra e qui «… lo tagliarono in più parti … e lo portarono su a la quercia ove era avvenuta l’uccisione del pastore».

Qualche semplice puntualizzazione alla fine di questo lavoro. La prima riflessione che viene in mente, è che a Pascarella non interessa né l’antichità dei luoghi visitati, né la loro importanza storica. Arpino, Sora, Aquino, Villa di Cicerone a S. Domenico sul Fibreno non sono nominati (solo di Aquino si ricorda che è patria del “satirico” Giovenale). Arce è solo un paese con «un nome guerresco» (Ivi, p. 38). Ciò che al Nostro interessa è la descrizione folcloristica, l’inconsueto, il primitivo, lo spunto per la battuta ad effetto. Sono quadri che ai romani e ai lettori del «Capitan Fracassa» piacevano per la loro diversità e singolarità. La descrizione delle donne ciociare nei loro costumi variopinti è puntuale e precisa. Del resto non bisogna dimenticare che nell’Ottocento e ancora nel Novecento gli artisti preferivano quali modelle le donne ciociare. Ma anche i modelli ciociari hanno il loro posto nell’ambiente artistico romano: un’intera parte di quest’opera (Il modello, da p. 82 a p. 94) è rivolta al ricordo del taglialegna ciociaro Mario da quando giovane «sul tavolone dell’Accademia, sotto la luce gialla de le lampade, gonfiava, fra le ammirazioni degli artisti, i muscoli dell’ampio torace a raffigurare … il “Discobulo” o il “Muzzio Scevola all’ara”, fino a quando, vecchio e povero “… si sentì mancare il terreno sotto i piedi, s’aggrappò a un fanale … strisciò sul parapetto [del Tevere] e scomparve». Altra osservazione da fare è che quello di Pascarella in Ciociaria è un viaggio come un altro. Avvicinandosi a Santopadre il poeta recita ad alta voce un verso di Virgilio. Mengaccio guarda fisso Pascarella e «Lei, signoria, scusate, siete milordo francese, è vero?». «Io?!, tu sei matto», risponde ridendo il poeta. «Io sono di qua». «Eh! Lei pazziate! Lei Signoria ci avete na faccia francese assaie!». «Ma no, caro mio, ti giuro, che io son di qua»55. Non è un nostos, perciò, quello di Cesare Pascarella, che non ha mai rivendicato le sue origini fontanesi: tuttavia con quelle parole, incomprensibili alla sua guida, vuol forse far capire al lettore, che sì, in quei luoghi arcaici, ma bellissimi e incontaminati, degni di essere citati con le parole di Virgilio, ci sono le sue origini ciociare?

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NOTE
1 Cesare Pascarella ebbe un’infanzia turbolenta per cui i genitori decisero di collocarlo dodicenne nel Seminario dei Gesuiti di Frascati. Fuggì dal seminario il 20 settembre 1870, in abiti talari, quando sentì i colpi di cannone annunciare la presa di Roma da parte dell’esercito piemontese. A Roma frequentò la scuola di pittura di Piazza Apollinare. Entrò successivamente all’Accademia di Belle Arti, che frequentò di malavoglia, preferendo dipingere soggetti all’aperto, con frequenza asini, tanto che veniva chiamato il «pittore degli asini». Intanto assecondava la sua inclinazione naturale e scriveva e declamava sonetti, calembours, freddure, pasquinate, che erano lo spasso di amici e conoscenti. Negli anni 1882-1883 comincia la sua collaborazione al giornale romano «Il Fracassa», al quale collaboravano Gandolini, Ugo Flores, Ettore Ximenes, ecc. Nella Redazione in via del Corso vi era una sala, la «sala gialla», sulle cui pareti i giornalisti e gli artisti disegnavano o scrivevano: su una parete si distingueva «…il ritratto di Eleonora Duse… e una espressiva testa d’asino in amore, specialità della matita di Pascarella» (A. Macchia, prefazione al Viaggio in Ciociaria, Bideri, Napoli 1914, p. 7. Questa edizione è composta da otto parti: Dalla Ciociaria, Il Modello, In Montagna, Da Roma a Roma, In Abruzzo, A Monte Giano, Tra un Pireneo … e l’Altro, Alpi e Alpinisti. D’ora in poi si farà sempre riferimento a questo testo del 1914 n.d.a.). I Ricordi di un viaggio in Ciociaria apparvero nel «Fanfulla della domenica» del 29 marzo 1885. Intanto viaggiava non dimenticando di portare sempre con sé il cappello, uno scialletto, la pipa e un chilo di tabacco. Partendo per l’India, scrisse col carboncino sulla porta del suo studio in Via Margutta: «Vado un momento in India e torno» (Ivi, p. 9). Nel 1886 pubblicò il poemetto Villa Glori o Villa Gloria, recensito positivamente da Giosuè Carducci. Nel 1894 uscì il poemetto La scoperta dell’America, lodato dal Carducci, giudicato negativamente da altri critici. Nel 1900 apparve la sistemazione in volume dei sonetti. Nel 1930 fu nominato Accademico d’Italia. Dopo altri viaggi, morì a Roma l’8 maggio 1940. Generoso Pistilli colloca Cesare Pascarella tra i fontanesi meritevoli di essere ricordati assieme a Nicola Parravano, Antonio Giannetti, Umberto Mastroianni, Marcello Mastroianni e Vincenzo Bianchi (v. G. Pistilli 2000, pp. 389-392); Achille Lauri scrive «Pascarella Cesare, di Fontana Liri» (v. Lauri 1915, p. 132 e sgg); Anton Giulio Bragaglia, nella Prefazione a I Ciociari” di Villy Pocino, scrive che «Cesare Pascarella, figlio di due ciociari di Fontana Liri, diventerà poeta romano come Giovenale». In realtà, anche se di origini fontanesi (ma la madre era piemontese), Cesare Pascarella è autentico poeta dialettale romano e fa parte della triade Belli-Trilussa-Pascarella.
2 Tra i molti, Spagna, 1881; Sardegna, 1882; Ciociaria, 1883; India, 1885-1886.
3 La tratta ferroviaria Roma-Ceprano fu inaugurata il 27 gennaio 1862 (v. Jadecola 2013). Il servizio passeggeri fu attivato il 1 dicembre 1862 (Ivi, p. 74).
4 Pascarella 1914, p. 42.
5 Ivi.
6 Ivi, p. 47.
7 Ivi, p. 43.
8 Ivi, p. 44.
9 Su Arce, v. Cicerone (Arcanum), Cayro, Grossi, Giannetti 1970, pp. 130-152; Corradini, ecc.
10 Ivi, p. 38.
11 Ivi, p. 39. Hanno scritto di Fontana (del Lago Solfatara, di S. Maria de’ Zapponi e di altre località): Cicerone, Cayro 1808; Pistilli 1824, pp. 60-65; Pierleoni 1907, p. 24; Grossi 1816, p. 101; Giannetti 1948; Pistilli 2000; Ottaviani 2015.
12 Ivi, p.19.
13 Pascarella 1914, p. 21.
14 «Fosso della Faina» è da intendere «Fosso della Fràina», cioè fosso dove c’è stata una frana. Ringrazio il professor Sergio Proia che ha chiarito il nome di questa località di Fontana Liri.
15 Ivi, p. 21. Non sono riuscito ad individuare questo luogo.
16 «Capotonno» o «Capotunno» è il nome di una piccola fontana che dava acqua agli abitanti de luogo. È stata usata fino agli anni ’50 del ‘900. Si trova a circa 100 metri dal miglio 67 (scomparso) della Consolare.
17 Ivi, p. 22.
18 «Fontecupa» ancora oggi è il territorio fontanese estremo a nord-est che costeggia sulla sinistra il Liri. Probabilmente vi era una fontana, sul fianco nord di un colle, all’innesto del vecchio tratto della Consolare, con il nuovo tratto pianeggiante, iniziato a costruire da Carlo Lefevbre nel 1856-1857 (per questa variante v. Bianchi e Ottaviani 2019, pp. 111-120).
19 Su Anitrella di Monte S. Giovanni Campano, le sue industrie e i Lucernari: Cigola 2002, pp. 49-54; Grossi 2002; Martini 1984, p. 39: Rotondi 2001; Ottaviani 2010; 2012, pp. 286-292; 2014, pp. 89-91; 2018, pp. 104-108.
20 Ivi, p. 22.
21 Ivi, p. 23.
22 Ivi, p. 24.
23 La mozzetta è una mantellina corta, chiusa sul petto da una serie di bottoni, indossata da canonici, abati, vescovi, cardinali e pontefici. Viene usata anche dai membri delle confraternite.
24 Ivi, p. 26.
25 Ivi, p. 28.
26 Ivi, pp. 29-30.
27 Questa chiesa diroccata potrebbe essere quella di S. Onofrio, che si trova a circa un chilometro dal centro, sulla strada per Porrino. Per frane e infiltrazioni di acqua, ha subito in passato molti danni, compreso lo scoperchiamento delle tombe esistenti intorno all’edificio.
28 Ivi, pp. 35-36.
29 «Pannine» sta per pezze.
30 Per gli stabilimenti cartari di Isola Liri-Sora, v. Iafrate e Iafrate 2019, 2020, 2021.
31 Per Luigi Alonzi, detto Chiavone, v. Ferri e Celestino 1984. In realtà Chiavone fu ucciso distante da Veroli, nei pressi dell’Abbazia di Trisulti.
32 Ivi, p. 50.
33 «Sciarabbà» è un carro agricolo a due ruote con balestre con sedili laterali (dal francese «char a bancs»). Da noi, fino alla sua scomparsa era chiamato “brek”, dall’inglese “break”.
34 Ivi, p. 50.
35 Mantellina con cappuccio.
36 Ivi, p. 51.
37 Ivi, pp. 51-52. Il «voto» è una promessa a Dio o ai santi, per ottenere una grazia; sciogliere il voto significa ringraziare Dio o i santi per la grazia ottenuta, v. Ottaviani 2016, pp. 103-110 e 2018, pp. 104-108.
38 Ivi, pp. 56-57.
39 Su Santopadre, v. Scafi 1871.
40 Ivi, p. 59.
41 L’«arca» era una cassa di legno dove si conservavano cibi e vestiario.
42 Rosso, di granturco.
43 Ivi, p. 59 e sgg. Presso i romani il mese di maggio era il mese dei defunti. La «Lemuria» era una festa che doveva calmare i morti. Lemuri, o larve, era il nome degli spiriti inquieti, spiriti di persone perite tragicamente. Gli spiriti venivano calmati con offerte di fave nere. Ovidio (Fasti, 5,436-438) scrive che il pater familias «nigras accipit ante fabas// aversusque iacit: sed dum iacit // Haec ego mitto, // hiis – inquit – redimo meque meosque fabis» («Prima di tutto il pater familias prende fave nere e le getta alle sue spalle, ma mentre le getta dice “Io ve le mando e con queste fave riscatto e me e i miei congiunti”»). Nelle società arcaiche i legumi erano uniti all’Oltretomba. Ancora oggi in alcune zone rurali (anche a Santopadre?) fave e ceci vengono consumati il giorno dei morti. I ceci neri servono per la «cisrà» del Monferrato e per lo «zemino» del Savonese. In Irpinia in passato, il 2 novembre, le famiglie ricche distribuivano una zuppa di ceci bolliti ai poveri («ceci cotti per l’anima dei morti»). A Venezia i monaci preparavano una zuppa di fave da distribuire ai poveri. Nel Modenese infine, la «limosna de i mort» era composta da fave bollite.
44 Scafi fa una descrizione dei riti funebri molto più accurata di quella di Mengaccio: «Pei contadini poi tutti i parenti ed amici debbono accompagnare il cadavere dalla casa alla Chiesa e al sepolcro, ed assistere ai funerali; similmente le donne; ma di queste le più care al defunto debbono accompagnarlo con pianti, ad imitazione delle antiche prefiche. Negli altri funerali che si fanno al terzo giorno i parenti intervengono col segno di lutto consistente in un nastro serico violaceo al cappello, gli uomini, e per tiranti alla loro tunica le femmine. E come gli antichi Romani, che terminavano i loro funerali con solenne convito, i nostri contadini dopo i funerali del terzo giorno facevano similmente; e la pietanza di rito era la minestra di fave; e si beveva alla salute eterna del morto», Scafi 1871, p. 56 (ringrazio Corradini, che mi ha fornito il testo).
45 Ivi, pp. 61-63.
46 Ivi, p. 63. Decimo Giunio Giovenale nacque ad Aquinum, nel Latium Adiectum, circa il 50-60 d. C., da una famiglia benestante ed ebbe una buona educazione retorica. Di Giovenale abbiamo scarne notizie, ricavabili la maggior parte dalle sue satire e da alcuni epigrammi dell’amico Marziale. Intorno ai trent’anni cominciò forse ad esercitare la professione di avvocato, ma con scarso successo. Intorno ai quarant’anni si dedicò alla scrittura. Il genere scelto fu la satira. Il corpus satirico comprende 16 satire, suddivise in cinque libri: il primo libro comprende le prime cinque satire; il secondo, la sesta satira; il terzo, dalla settima alla nona; il quarto, dalla decima alla dodicesima; il quinto, dalla tredicesima alla sedicesima (incompleta). Visse all’ombra di uomini potenti, nella scomoda posizione di cliens, privo di libertà politica e di autonomia economica. Le donne sono il bersaglio privilegiato delle sue satire, in special modo le matrone romane. La sesta satira è un feroce documento di misogenia, dove campeggia Messalina, l’Augusta Meretrix. Cayro, citando Gimma, scrive che «Giovenale fu mandato nell’età di anni ottanta per Tribuno della Coorte de’ Dalmati nell’Egitto» (Cayro 1808, p. XVII). Morì a Roma intorno all’anno 127 d. C. Su S. Pietro a Campea e la possibile villa di Giovenale, v. Gagliano De Azevedo 1949, p. 61: «Si tratta certamente delle costruzioni di una villa rustica databile all’incirca nel I secolo a. C. Ivi fu trovata l’epigrafe ricordante Giovenale. Ciò potrebbe anche ragionevolmente fare supporre che la villa avesse appartenuto al grande poeta. Se l’ipotesi si basa su di un indizio assai debole, non vi è tuttavia alcuna prova in contrario».
47 Ivi, pp. 63-71.
48 Ivi, p. 78.
49 Ivi.
50 Ivi, p. 74.
51 Ivi, p. 75.
52 Ivi, pp. 76-82.
53 Ivi, da p. 99 a p. 113.
54 Ivi, pp. 107-108.
55 Ivi, p. 58.

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