«Studi Cassinati», anno 2024, n. 1
> Scarica l’intero numero di «Studi Cassinati» in pdf
Rileggiamo … pagine di storia edite ma poco note
di
T[ommaso] L[eccisotti]
A ottanta anni dalla scomparsa ricordiamo il fine decoratore e restauratore ripubblicando varie testimonianze raccolte da d. Tommaso Leccisotti nel trentennale (le note a corredo sono state aggiunte a cura di gdac).
Due giorni prima della catastrofe che polverizzava Montecassino, il 13 febbraio moriva fra quelle sacre mura il monaco benedettino vercellese P. D. Eusebio Grossetti1.
Era uno dei cinque rimasti a vigilare2, intorno alla veneranda figura dell’Abate Diamare, il millenario monastero avvolto tra le spire mortali della guerra. Un volontario della fedeltà; un giovane (era nato a Vercelli nel 1911) che non volle abbandonare, nell’ora della tragica tempesta, l’oasi di preghiera, di pace e di studio in cui aveva voluto vivere seguendo l’invito di Dio.
È morto colpito da un’epidemia che nelle ultime settimane falciava vittime tra i fuggiaschi agglomerati in quel recinto che ogni buon senso umano e cristiano riteneva invulnerabile. «Da parecchi giorni sono ridotto a fare l’infermiere e il becchino… D’ora in avanti non aspettatevi più nulla». Sono le frasi più salienti dei suoi ultimi scritti alla famiglia; sono presentimenti di chi aspetta la chiamata di Dio.
Che magnifica figura di monaco abbiamo perduto noi vercellesi! E che schianto nel nostro cuore al pensare che non vedremo più quei suoi due occhi che sembravano due fontane vive di serenità! E che rimpianto nel dover rassegnarci a vedere immobile per sempre quella sicura mano di artista, che sapeva miniare alla inimitabile maniera del mille, che riusciva ad esprimere pur tra i binari dell’arte più ortodossa il canto pieno del suo giovane genio, che si accostava con samaritana sapienza ai capolavori per medicarne il declino.
D. Eusebio da Vercelli era ormai un artista noto e ricercato, cresciuto alla scuola benedettina di Beuron che a Montecassino aveva lasciato un’orma che non doveva essere assassinata, l’anima aperta ai misteri di quell’arte sacra che accomuna le più remote tradizioni alle più novecentesche conquiste, l’occhio clinico fisso su quei codici che continuano a svelare al mondo moderno i misteri dell’antica sapienza. Era diventato «qualcuno» pur rimanendo bambino, semplice come «sorella acqua».
Lo conoscemmo tra i banchi delle Scuole Cristiane, bello, bravo e buono; inesauribile fonte di gioia tra i compagni. Lo seguimmo durante gli anni del ginnasio, nel nostro seminario; primo fra i primi, ma come un’anima trasognata in cerca della sua strada.
Un giorno partì per Montecassino, lasciando di stucco i condiscepoli ma non cogliendo di sorpresa i superiori. Sul monte di S. Benedetto scandì, durante gli anni di liceo e di teologia, il suo «ora et labora», finché ascese all’altare: la meta.
Quando lo vedemmo celebrare la S. Messa, la prima volta, nella parrocchia nativa del SS. Salvatore, gli fummo attorno plaudenti. Era ancora tutto lui, fanciullo come una volta, inalterabilmente lieto, col cuore sempre aperto ai suoi vecchi amici, con lo sguardo proteso verso l’avvenire, per tutto dare e nulla domandare.
Veniva nella sua città di quando in quando e, pur sotto i veli quasi impenetrabili di una umiltà veramente monacale, si poteva notare la sua progressiva crescenza intellettuale e culturale; si sentiva che in lui giganteggiava un’anima d’artista religioso vibrante dei più santi entusiasmi e anelante alle superlative conquiste: solo per il culto solo per Dio.
Molti lettori ricorderanno un articolo di Attilio Crepas (giornale «La Stampa Sera» 2 gennaio 1940), in cui il nostro carissimo D. Eusebio Grossetti è scolpito dal vero, così:
«A mio compagno abituale di questo terzo soggiorno all’Abbazia, ebbi un benedettino giovane, di acuta dottrina, di soave pietà, di squisita sensibilità artistica: un uomo limpido come se ne trovano quasi solamente più nel segreto dei conventi. Padre Eusebio da Vercelli, lavora nel Cenobio ad una scuola di restauro delle opere d’arte, che molte tele, molte preziose tavole ammalate, ha salvato con mirabili cure. Egli è anche provetto nella miniatura, che la scuola di Montecassino esegue ancora all’uso antico, col sistema della doratura ad oro fino».
E quando il giornalista, con una certa sfumatura scanzonata, ma cortese e corretta, domanda a D. Eusebio di Vercelli perché mai i monaci non conservano ricordo personale dei visitatori del monastero (in quel frangente si tratta di un gruppo di studentesse universitarie romane) e insiste interrogandolo: «Possibile che tutti noi per voialtri si sia senza volto e senza voce? che nulla o quasi nulla voialtri riteniate della nostra esteriorità? E noi che passiamo: pellegrini, turisti, studiosi, dal vostro convento, che cosa siamo allora per voialtri, noi, se non creature di carne ed ossa, con certi abiti, un determinato timbro di voce, una certa posizione sociale? che cosa? – Delle anime – rispose D. Eusebio da Vercelli.
Ecco il monaco, nella sua atmosfera trasumanata. Ecco l’anima mistica del grande scomparso che oggi Vercelli piange: ecco una risposta che prescinde precisamente da «carne ed ossa». Noi oggi lo pensiamo con lacerante tristezza due volte sepolto: sotto la terra del piccolo cimitero conventuale e sotto l’orrendo cumulo delle macerie della sua Casa, sentinella fedele fin oltre la vita, piccolo grano sotterrato che raffigura e preannuncia la rinascita di Montecassino. Ma egli vivrà fra noi, che gli volemmo tanto bene, come una delle figure più caratteristiche della Vercelli religiosa del nostro tempo. D. Eusebio Grossetti per noi non è morto: ci sarà compagno in tutte le più nobili ascensioni della vita, in tutte le prove più angosciose, in tutte le trepide speranze di queste torbide ore.
Il nostro pianto si mesce con quello della famiglia, ma la nostra anima sarà sempre con lui, per ricordarne l’esempio che non si cancella.
Fin qui la voce della sua città natale espressa su L’Eusebiano da don Martinetti, parroco di S. Paolo di Vercelli.
Ed ecco quella dei suoi confratelli:
L’anima, naturalmente cristiana ed artistica, del giovane diciassettenne, si trovò ben presto a vibrare all’unisono con tutto quel mirabile complesso di bellezze d’arte e di incomparabili memorie che costituiva la Badia Cassinese. E la sua attività si prodigò ininterrotta in decorazione di chiese: ricordiamo quelle del Carmine e delle Suore di Carità di Cassino; in restauri di quadri e di affreschi, notevoli quelli della stessa Basilica di Montecassino; nella miniatura: ci restano di lui specialmente un rotolo di Exultet e alcuni fogli di un iniziato Evangeliario; nella xilografia ed incisione: veniva tuttora fissando e conservando per l’edizione del Codex Diplomaticus Caietanus le visioni della vecchia città medioevale, oramai anch’essa travolta dalla furia bellica; nella pittura, nella fotografia e nelle altre arti minori. Uno studio inoltre sul coro di Montecassino e i suoi putti era stato ospitato nella rivista di Arte Cristiana.
Animato da profonda pietà e spirito soprannaturale, entusiasticamente volle essere tra quei pochi animosi che, con il loro Abate, si offrirono di restare a custodia della Casa e Sepolcro di S. Benedetto, fra il turbine della guerra. Non si nascondeva i pericoli e le sofferenze della sua decisione, ma li accettò e scelse con piena consapevolezza nella speranza sicura che il suo sacrificio, anche se particolarmente penoso ai familiari del lontano Piemonte, non sarebbe stato inutile.
E l’offerta fu pienamente accolta. Consumato, con i quattro mesi della lunga agonia della Badia, il periodo di preparazione che egli consapevolmente diresse ad espiazione terrena, prima che la rabbia distruggitrice si avventasse per l’ultima volta su quella tanta bellezza che aveva attratto ed avvinti i suoi occhi mortali, il Signore schiudeva all’anima sua purificata la visione degli splendori eterni. Un disegno di misericordia e predilezione divina concedeva a lui di potere, ultimo di esso fra i suoi confratelli, dormire cum Patribus suis; nell’area sacra in cui, intorno a Benedetto e alla verginale sorella Scolastica, tanti Santi Cassinesi aspettano la Risurrezione.
___________________________________________________________________________________
Ed ecco un’altra voce*
Bonifacio Borghini
Anche lui (d. Eusebio) è passato alla storia; ma qui io lo ricordo solo come indimenticabile amico. Lo conobbi il giorno della sua professione, il 22 ottobre 1931. L’Abate Diamare, nel discorso di circostanza, notò che i tre neoprofessi [Eusebio Grossetti, Adeodato De Donà e Nicola Clemente] venivano dalle tre estremità dell’Italia, ed egli amava che tutte le regioni d’Italia fossero rappresentate a Montecassino.
Ma l’amicizia propriamente detta con lui nacque molto più tardi, e divenne intima quando lui per ragioni di salute e io per precoce vecchiaia ci associammo nel passeggio vespertino, concesso ai monaci a sollievo della loro laboriosa giornata. Si passeggiava adunque sulla magnifica strada panoramica, sotto i grandi alberi, ora tutti scomparsi. Il nostro passo era grave, ma non sempre erano gravi i nostri discorsi.
D. Eusebio parlava volentieri, ed in genere, era molto interessante. La mattina aveva fatto scuola ed io ero messo al corrente delle vicende liete o tristi. Amava i suoi scolari, si prodigava ed otteneva molto. Ricordo ancora il disegno di una vecchia scarpa, resa con grande verità e sentimento da un seminarista di terza media, che egli classificò con un dieci, con preoccupazione del P. Abate che temeva i voti troppi alti, come del resto disapprovava quelli troppo umilianti.
Parlava moltissimo di arte; aveva restaurati tanti quadri, ed il restauro era per lui occasione di uno studio approfondito sulla composizione, il colore, la tecnica. Ricordo la sua crescente ammirazione per la scuola napoletana del 700 piena di luce e di vivacità.
Ma l’argomento prediletto era quello delle nostre famiglie lontane. Egli amava teneramente i suoi. Tutte le sere, ad un’ora stabilita andava a pregare all’altare del SS.mo Sacramento, e mi diceva che a quell’ora erano in quattro a pregare.
A passeggio pian piano mi mise al corrente di tutti i fatterelli ed incidenti della fanciullezza; delle vicende della sua vocazione religiosa, della salute della mamma, degli affari di papà, del servizio militare del fratello, delle monellerie della nipotina, e via di seguito. Egli godeva di ripensare a quel mondo tanto caro, senza però il minimo rimpianto per la sua vocazione. Amava soprattutto l’anima dei suoi, ed era bramoso, direi quasi trepidante, per la loro salvezza eterna.
Col nove settembre 1943 cominciò per D. Eusebio un’attività intensa: militari nostri da nascondere, sfollati e fuggiaschi da assistere e ricoverare. Egli si gettò a capofitto nel servizio di foresteria, e fece tutto il possibile. Ricordo un soldato che veniva da Trieste, piegato in due per la fame, lacero e sporco, perché rimasto mezzo sepolto in un bombardamento aereo presso Cassino. D. Eusebio lo portò nel suo studio, gli procurò acqua calda, e nutrimento; quindi per i suoi poveri piedi piagati dall’interminabile marcia prese della tela destinata ai suoi quadri, e ne fece delle «pezze da piedi». Penso che davanti a Dio, questo sia stato il più bel quadro di D. Eusebio. Il suo «Exultet» fu esposto in Vaticano, ma quelle povere pezze da piedi, date, per amor di Cristo, saranno esposte in Paradiso.
Volle rimanere lui, liberamente, a Montecassino, come la cosa più naturale del mondo, mentre ragioni di famiglia, di salute, di arte avrebbero giustificata ampiamente la sua partenza. Restò ad esercitare le opere di misericordia, compresa quella di seppellire i morti.
Poi si ammalò, e terminò tranquillo la sua breve giornata.
Fu l’ultimo monaco sepolto a S. Anna. Dopo la tumulazione, fatta sotto il tiro dell’artiglieria, i monaci si riunirono presso il vecchio Abate, che scoppiò in pianto dirotto. Neppure la catastrofe di Montecassino avvenuta il giorno dopo, trasse tante lagrime dagli occhi di D. Gregorio Diamare.
* «Echi di Montecassino», a. II, n. 4, gennaio-giugno 1974, pp. 12-17 (Nell’occhiello: «I tragici giorni che videro la estrema desolazione della nostra Badia sono già conosciuti dai lettori del Bollettino. Nel trentesimo anniversario ci limitiamo quindi a rievocare qualche particolare poco noto»).
1 Nato a Vercelli l’11 marzo 1911, aveva iniziato la formazione scolastica presso le Scuole Cristiane della sua città natale, poi era entrato nel seminario frequentando le prime classi del ginnasio; diciottenne era giunto a Montecassino, emettendo i voti monacali il 22 ottobre 1931. Venne ordinato sacerdote da mons. Diamare a Montecassino il 22 dicembre 1934. Celebrò la sua prima S. Messa nella parrocchia nativa del SS. Salvatore a Vercelli. Decoratore e restauratore di quadri, affreschi e miniature, tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944 aveva iniziato una nuova e intensa “attività” nel monastero prodigandosi in soccorso di soldati sbandati e dei civili rifugiati nell’abbazia o nelle vicinanze e riducendosi, come egli stesso scrisse alla famiglia, «a fare l’infermiere e il becchino» (Febbraio 1944, in «Echi di Montecassino», gennaio-giugno 1974, a. II n. 4, p. 12). Infatti si ridusse a dare sepoltura ai civili morti in quei frangenti, costruendo le casse mortuarie e sistemando il «cimitero a S. Agata con nomi, croci, ecc.». A partire dal 9 novembre 1943 tenne un diario in cuoi annotava i fatti più salienti accaduti quotidianamente. Poi la redazione del diario, dal 20 gennaio 1944, venne portata avanti da d. Martino Matronola. Infatti le sue condizioni di salute erano andate peggiorando velocemente. Il 28 gennaio si mise a letto con 40° di febbre. Il 9 gennaio fu visitato da un ufficiale medico tedesco che gli diagnosticò il paratifo contratto probabilmente in seguito all’«assistenza prestata ai malati» e alle «tumulazioni cui dovette provvedere». Il 13 febbraio l’abate Diamare «gli amministr[ò] l’Estrema Unzione … gli impart[ì] l’assoluzione apostolica in articulo mortis» e alle 15.45 d. Eusebio se ne andò «tranquillo senza smanie e agitazioni». Aveva 33 anni, 12 di professione e 9 di sacerdozio. La salma, «rivestita degli abiti monastici» venne vegliata per ventiquattro ore e alle due del pomeriggio del 14 febbraio, tra lo «scompiglio» provocato dal sopraggiungere di alcuni giovani con i volantini che annunciavano l’imminente bombardamento di Montecassino, venne tumulata nella cappella di Sant’Anna (E. Grossetti, M. Matronola, Il bombardamento di Montecassino. Diario di guerra, in Faustino Avagliano, a cura di, Montecassino 1997, pp. 15-105).
2 A partire dall’inizio di novembre 1943, i tedeschi autorizzarono una piccola comunità religiosa a rimanere a Montecassino accanto all’abate Diamare che risultò composta da sei monaci (d. Eusebio Grossetti, d. Martino Matronola, d. Agostino Saccomanno, d. Nicola Clemente e d. Oderisio Graziosi), un sacerdote secolare (d. Francesco Falconio) cinque conversi (fra Carlomanno Pelagalli di a. 79, fra Pietro Nardone di a. 39, fra Giacomo Ciaraldi di a. 30, fra Romano Colella di a. 24, fra Zaccaria di Raimo di a. 30) e un oblato (Giuseppe Cianci).
(11 Visualizzazioni)